Sai, riflettere sulla malattia di cui si soffre, mentre si sta ancora cercando di comprendere la propria storia e rielaborarla è un lavoro molto difficile e per nulla neutrale alla fase di vita in cui mi trovo.
Il mio sforzo più grande sarà quello di pensare a me stessa mentre scrivo, a una me di qualche tempo fa che in questi giorni di quarantena forzata (corre l’anno 2020) e di ansie e pericoli materializzati sarebbe stata persa, vittima della malattia e di quelle dinamiche famigliari tossiche che l’hanno condotta ad essa.
Inizierò da un ricordo. Da bambina, vicino ad un importante snodo stradale del mio comune, avevano tenuto per qualche settimana l’immagine a grandi dimensioni del corpo nudo e malato di una donna, Isabelle Carò, accompagnata dalla scritta “anorexia” e ricordo mia madre che aveva commentato dicendo: “poverina, io proprio non capisco come ci si possa conciare così”.
Non sapevo cosa fosse l’anoressia e chiesi a mia madre di spiegarmelo. Non ho mai dimenticato le parole con cui descrisse questa patologia perché le sentii rivolte contro di me pochi e per molti anni più tardi e perché in quel momento sarebbero state anche le mie, magari in risposta alla medesima domanda formulata da un’amica, una sorella o una figlia.
Imparai presto “come ci si può conciare così” e non fu per emulazione né per dirette pressioni negative sul mio corpo, ma fu per me la soluzione più naturale al disagio che avevo coltivato durante la mia infanzia.
Se ti dovessi descrivere me stessa fino all’età preadolescenziale userei le parole che mi sono sentita dire dalle persone che avevo vicino: sensibile, ubbidiente, premurosa, silenziosa, precisa, affidabile, autonoma. Nulla di brutto insomma, solo complimenti.
Se però dovessi descrivermi con timorosa sincerità ti direi che sì ero sensibile, ubbidiente e tutto il resto, ma anche molto sola, repressa, insicura, bisognosa di attenzioni a nessun compromesso o prezzo, di bastare per quella che ero, senza traguardi che si spostavano continuamente ad un passo dal nastro rosso.
Con l’adolescenza è arrivata anche per me la ribellione verso un sistema fatto di dinamiche radicate nel mie tessuto famigliare.
Ti sembrerò folle ma ammalarmi di anoressia è stata la prima vera cosa che ho fatto per me stessa: è stata una liberazione, il grido che non sapevo di aver bloccato in gola, la rabbia che non potevo scatenare, la fame di vita che non immaginavo di avere, ma che mi avrebbe portata nell’abisso.
Il linguaggio dell’anoressia non è molto complesso nei suoi sintomi più evidenti: rifiutare tutto ciò che il mondo poteva riversare in me (es. cibo) e modulare con cautela tutto ciò che di me il mondo poteva “rubare” (es. corpo). È un gioco di potere, una lotta logorante fatta di schemi e regole tiranniche nella quale vedi tutte le persone care vicino a te soffrire, mentre tu inizi a sentire sempre meno, finché non ti importa perché in fondo ti sembra di essere rimasta sola (la restrizione è una scatola apparentemente piccola che però sa contenere tutto il tuo mondo, relazioni comprese) e alla fine la testa compone pensieri di morte, se il corpo ancora resiste.
Dopo anni in cui ho “non-vissuto” in questo modo il sintomo è improvvisamente cambiato e, faccia della stessa medaglia, è arrivata la bulimia.
L’adrenalina fuori controllo dell’abbuffata era qualcosa che non avevo mai provato, mi faceva sentire viva, calmava l’ansia, riempiva il vuoto e alla fine arrivava il crollo: in ginocchio con la faccia nel cesso per minuti interminabili, anche più volte al giorno, il ronzio nelle orecchie, le vertigini.
Alternavo fasi di abbuffata e restrizione a fasi di abbuffate con compensazione e costanti piccole incursioni in cucina che facevano del giorno un pasto costante.
Non potevo accettare che la mia vita mi stesse scivolando dalle mani, che il mio corpo cambiasse sotto i miei occhi, ma non riuscivo più a smettere perché era diventato il mio nuovo “alibi” per sfuggire alla vita.
Non vedevo via d’uscita e la depressione andava a braccetto con la bulimia: si auto-alimentavano a vicenda.
Ma se un equilibrio perfetto può durare a lungo anche se malato, per interromperlo ci vuole un elemento che ne destabilizzi la struttura dalle fondamenta.
È difficile abbandonare qualcosa che ti ha tenuto compagnia proprio quando ti sentivi più sola, che ti ha aiutata quando eri più fragile o calmata quando avevi più paura, in cui ti sei a tratti identificata e a tratti contrapposta. Dopo vari percorsi, io ho scelto di chiedere aiuto a MondoSole, di affidarmi (o almeno ci provo con tutta me stessa), di mettere tutto in discussione, tutto tranne la mia vita e la mia salute e ora sono in un percorso che sento mio, che sento darmi aiuto e vicinanza ogni giorno senza togliermi nulla.
Ho scritto molto lo so bene (la propria vita non è mai facile da sintetizzare), ma spero con questa testimonianza di averti aperto la porta quanto basta per “sbirciare” dentro un mondo che mi auguro non appartenga a te o a una persona a te cara.
In questo caso ti vorrei solo ringraziare per aver letto fino a questo punto perché la bambina in macchina con sua mamma a fissare una pubblicità progresso contro l’anoressia non lo avrebbe fatto e si sarebbe accontentata dell’opinione generale.
Se al contrario sai bene di cosa sto parlando, se sei un genitore disperato, come lo erano i miei, o un parente, un amico, un professore o allenatore, ti vorrei dire che in qualsiasi caso ti sembrerà di non fare bene e a volte sarà così, ma sii clemente con te stesso, chiedi aiuto a chi ne ha il ruolo e le competenze e non ti annullare come persona, perché nessuno può dare qualcosa che non possiede: non puoi dare benessere se non ti prendi cura di te.
Se tu che leggi stai pensando che è tutto troppo esagerato, ricordati che se non riesci a fare diverso non è debolezza, ma dipendenza e se pensi che non ti serve cambiare, che stai bene così, ti dico che la vita è un’altra, che forse hai la testa annebbiata e non la ricordi o ancora non la conosci, ma può essere meglio di così e se mi dici che tanto non guarirai mai, che ci hai provato ma non ci sei riuscita, non smettere, continua ad affidarti a chi ti può aiutare davvero a lavorare ogni giorno sulla motivazione e diventerà più forte lei della malattia, sarai più forte tu (probabilmente lo sei già, ma fa paura).
Infine se tu che leggi pensi che sia troppo tardi, che sei stanca, ti capisco e lo rispetto, ma ho imparato che non è della vita che si è stanchi, che non c’è un numero finito di possibilità che meritiamo di darci per vivere meglio e che ora mi sembra di essere Osho, ma che per fortuna qualcuno ha speso dieci minuti del suo tempo per dire le stesse parole piene di vita alla Giulia di qualche tempo fa che ora sta scrivendo e per questo sarò sempre grata.
C’è una frase che sentii dire dall’alpinista Reinhold Messner ad una conferenza: “io non sono migliore degli altri, ci ho solo provato di più”.
Io continuo a provarci e respiro aria più pura ad ogni passo.
Non sono migliore di te, ho buoni compagni e ottimi strumenti.
Giulia M.