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Riflessioni su traumi e Disturbi del Comportamento Alimentare.

by ChiaraSole Ciavatta

Riflessioni su traumi e Disturbi del Comportamento Alimentare: Il sintomo alimentare, qualunque esso sia, è la modalità attraverso la quale si esprime la psicopatologia sottostante il sintomo; Il sintomo alimentare rappresenta il tentativo, da parte della persona, di «sedare» quella sofferenza emotiva, profonda e indicibile, figlia/o di esperienze relazionali frustranti, spiacevoli e traumatizzanti.

Qual è la tipologia di Trauma maggiormente conosciuta e culturalmente condivisa? Che cosa intendiamo per Esperienze ed Eventi traumatizzanti da un punto di vista psicologico?

Eventi che potenzialmente (o sicuramente) possono scatenare un trauma psicologico non includono solo condizioni estreme e fuori dal comune, ma molto spesso possono riguardare anche esperienze di trascuratezza, deprivazione affettiva o mancanza di rispetto e accudimento, che influiscono sul senso di valore dell’individuo, sulla sua sicurezza, sull’autostima e sul suo senso di efficacia personale.

L’entità del trauma psicologico è soggettiva. A seconda delle caratteristiche di personalità, dell’ambiente circostante, della struttura emotiva e cognitiva di ogni persona un evento può essere più o meno traumatico.

Anche senza aver subito traumi con la “T” maiuscola, tutti noi abbiamo subito traumi con la “t” minuscola.

Per alcuni può essere stato traumatico, ad esempio, essere umiliati alle elementari da un maestro troppo duro, per altri essere lasciati, improvvisamente, dal proprio partner; per molti può essere traumatica la perdita del lavoro, oppure un divorzio o la perdita di una persona cara, ma anche un giudizio ricevuto.

«Molte persone traumatizzate sentono di vivere in un inferno personale che non possono condividere con nessun altro»  Peter A. Levine

Quando l’elaborazione del trauma non avviene spontaneamente, le emozioni e le sensazioni corporee si bloccano, compromettendo il normale funzionamento psichico.

Quando parliamo di Disturbi del Comportamento Alimentare quali sono alcuni degli «antecedenti» traumatici ricorrenti in chi soffre di un D.C.A., che contribuiscono alla costruzione di quel tessuto psicopatologico sottostante il sintomo alimentare?
  • “Sprofondavo sempre più nell’abbraccio della malattia era lei l’unica a “comprendermi”.
    Era inizialmente un tenero abbraccio di godimento poi diventava così stretto da farmi soffocare.
    Ingurgitavo cibo per riempire il vuoto.
    Ingurgitavo cibo per non pensare.
    Ingurgitavo cibo per punirmi.
    Ingurgitavo cibo per godere.
    Ingurgitavo cibo per continuare a vivere quella devastazione dentro.
    Ingurgitavo cibo perché era meglio tutto dentro che fuori.”

Il bisogno inascoltato di essere riconosciuti, compresi nei propri bisogni emotivi e affettivi, rappresenta un’esperienza traumatizzante.

  • “Dentro di me sentivo una grandissima rabbia e un senso di abbandono enorme (…). Ricordo molto poco, ma ciò che mi è rimasto di quel periodo è il non essere mai stata protetta (…). Una vita fatta di doveri, di comportamenti sempre così inquadrati e rigidi, mal indossati da una bambina, praticamente mai esistita: io dovevo essere adulta. Tutto intorno a me lo richiedeva, anzi lo pretendeva.”

Il bisogno inascoltato di sentirsi protetti, rappresenta un’esperienza traumatizzante.

  • “Ho provato la dolorosa sensazione di non essere voluta, di essere un peso e altre volte di essere invisibile. Mi vedevo brutta e grassa da piccola, odiavo le mie foto e mi sentivo inadeguata. Mi sono spenta. Avevo tante paure e poco spazio per essere la bambina allegra e spumeggiante. Non so dire a che età mi sia ammalata, credo di vivere un disagio fin da piccola, anche se il sintomo è esploso all’età di 10 anni. Ricordo un senso di inadeguatezza, un senso di vergogna e soprattutto un senso di colpa, che nascondevo dietro l’immagine della bambina “perfetta”. Quando è arrivato il sintomo, se da una parte scomparivo, dall’altra mi sentivo vista e tutto si riempiva di schemi, di numeri, di ossessioni, di cibo: di una sofferenza straziante che si esprimeva attraverso i sintomi.”

Il bisogno inascoltato di essere visti, accolti per quello che si è, rappresenta un’esperienza traumatizzante.

Ancora oggi leggiamo sui rotocalchi che se una persona si ammala di anoressia la colpa è della madre. Chi svolge lavoro clinico sa quanto sia pericoloso, tecnicamente sbagliato e controproducente un approccio di questo genere.

Se si concorda sul fatto che fattori di origine familiare possano giocare un ruolo nella genesi e nel mantenimento del disturbo del comportamento alimentare, le attuali conoscenze ci conducono a rifiutare l’ipotesi che tali fattori costituiscano il meccanismo patogenetico esclusivo.

I Genitori, in ogni caso e in ogni modo, sono una Risorsa del processo di cura!

Per chi soffre di D.C.A., le dinamiche relazionali disfunzionali e traumatizzanti che sono state vissute, vanno gradualmente «riattraversate» non per identificare colpe e responsabilità, non servirebbe a nessuno, sarebbe controproducente; ma per capirne i significati, le percezioni e i vissuti, e soprattutto per dare parola a quel tessuto emotivo doloroso negato e annegato attraverso i sintomi alimentari.

L’essere stati esposti a un ambiente, dove alla comunicazione delle proprie esperienze interne, delle proprie emozioni, hanno fatto seguito risposte estreme, inappropriate e imprevedibilmente variabili, porta a far sì che lo stimolo temuto sia rappresentato dalle proprie emozioni, che si ritengono pericolose e per questo non si vogliono sentire

  • “Nessun luogo né persona era abbastanza per riempire quel vuoto, che rimbombava sempre più forte da dentro. Nemmeno il tanto amato e odiato cibo riusciva a colmarmi. Inizialmente, in una lunga fase di restrizione avevo l’illusione di bastarmi da sola, di ESSERE FORTE, di AVERE IL CONTROLLO, di poter affrontare il mondo. Pensavo tutto il giorno a quante calorie avrei ingerito e a quante ne avrei dovute bruciare, ottimo modo per non sentire e non pensare ad altro. A poco a poco, alzavo sempre di più la posta: DOVEVO restringere di più, dovevo perdere un chilo in più, dovevo camminare 10 minuti in più. Non era mai abbastanza.”

Poi arriva un momento dove la profonda sofferenza, inizia ad assumere un’altra forma e trova un’altra modalità per esprimersi che non è più quella del sintomo, ma ad esempio è quella della parola, è quella dell’iniziare a riconoscere se stessi, i propri bisogni, la propria individualità, il proprio valore e i propri desideri senza esserne spaventati, o forse sì, ma non per questo smettere di desiderare e di riconoscere, un passo alla volta, il proprio valore.

La ricerca spasmodica di qualcosa all’esterno sta perdendo sempre più importanza man mano che sto prendendo contatto con la vera me, con i miei reali desideri e bisogni, imparando, ogni giorno, ad accoglierli e nutrirli, amando sempre di più me stessa.

«Il trauma è una realtà della vita, ma non per questo dev’essere una condanna a vita»  Dott. Even Mattioli – Psicologo Psicoterapeuta e parte integrante dell’equipe MondoSole

(Intervento del 15 Marzo 2019 – Rimini Giornata del Fiocchetto Lilla contro i Disturbi del Comportamento Alimentare Conferenza di sensibilizzazione Quando il Cibo diventa una malattia)

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