Riflessione lampo sul Binge Eating: la mia resistenza alla cura: Mi chiamo Sara, ho 27 anni e sono una ragazza in percorso a MondoSole. Ho iniziato a soffrire di anoressia e binge eating all’età di 14 anni, ma ho memoria delle mie prime abbuffate all’età di 5/6 anni.
Ricordo ancora la prima volta in cui i miei genitori mi hanno colta in flagrante, mentre facevo scoppiare l’ultimo kinder brioss, seduta a terra nella loro camera da letto, circondata da tutti gli involucri delle merendine. Ne avevo appena fatto fuori due pacchi.
Allora non avrei mai potuto capire che quella non era altro che la manifestazione di un disagio interiore che avevo iniziato ad incubare praticamente dalla nascita.
Oggi per la prima volta vorrei provare a mettere nero su bianco cosa ha significato e cosa significhi per me quella bestia nera, quella bestia che sento sempre essere in agguato nella mia stessa ombra, sempre pronta ad aggredirmi e che mi insegue ovunque e in ogni momento della mia vita.
Se dovessi descrivere metaforicamente quello che per me è stato ed è il binge eating, non potrei usare espressione differente da quella di… veleno e antidoto.
Il binge eating è un veleno perché ti distrugge. Fisicamente, emotivamente. Distrugge il tuo corpo fino a portarti alla morte in modo subdolo e distrugge la tua anima impedendoti come un dittatore di provare qualsiasi tipo di emozione.
Il binge eating è un antidoto perché attraverso le abbuffate ti illudi inconsciamente di trovare una sorta di “rimedio”, un conforto, un sollievo a tutto il dolore che non vuoi/puoi sentire, molto spesso causato da dinamiche famigliari velenose che ti hanno lacerato dentro. In realtà tutto ciò che ne ricavi è solo un gran senso di solitudine e di morte nel cuore, per non parlare dei lancinanti sensi di colpa.
Il binge eating è tutto questo ma è anche molto altro. Potrei stare qui ore ed ore a descrivere questa malattia e il dolore che si prova.
Ma allora ci si chiede perché, se provoca così tanta sofferenza, spesso si ha così tanta resistenza alla cura?
“Semplicemente” perché non si ha il coraggio di rinunciare a quella che ormai corrisponde alla propria identità o comunque a quella che si avverte come identità.
“Semplicemente” perché staccarsi dalla malattia significa anche staccarsi da quella che da sempre è stata la normalità della propria famiglia (non ovviamente in senso di COLPE, bensì di DINAMICHE). Una normalità che si fa tanta fatica a lasciar andare, perché è tutto ciò che si conosce.
“Semplicemente” perché anche accettare la possibilità di poter guarire fa male.
Fa molto male.
E allora per non stare molto male si preferisce stare male e basta accompagnati di un godimento subdolo.
Un male quotidiano al quale ormai si è “abituati”, ma soprattutto dipendenti. E non c’entra nulla l’essere golosi o la forza di volonta… è una malattia grave ed è importante curarsi!
Un dolore al quale ormai si è assuefatti, talmente assuefatti da considerarlo parte di sé, senza il quale non si riesce nemmeno ad immaginare una vita diversa, perché non la si è mai assaporata.
Perché si crede di non meritarla. E invece non è così.
Sto cominciando a capire che questa è la parte malata dentro di me a parlare.
E questo grazie a tre persone meravigliose che pian piano mi stanno fornendo gli strumenti per comprendere la mia storia famigliare in tutte le sue dinamiche e a ricongiungere i pezzi di un grande puzzle che sicuramente per generazioni e generazioni è rimasto incompleto. Grazie di cuore Chiara, Fiorella ed Even!
Sara S.