Voglio iniziare a raccontare la mia storia partendo da una riflessione che mi ronza nella testa da un po’ di giorni. Qualcuno di recente mi ha chiesto come facessi a conoscere ChiaraSole Ciavatta. Ho raccontato di conoscerla per via di un tirocinio svolto nell’associazione MondoSole, e di essere arrivata a Rimini apposta per svolgere questo stage. Nelle successive ore ho continuato a provare un senso di inadeguatezza per quello che avevo raccontato, e mi sono domandata: perché?
Oggi per me aver scelto un percorso di cura è una gran vittoria, ma rimane molto forte il senso, l’ideale di perfezione e di brava ragazza, che si vergogna di essersi ammalata di disturbi alimentari.
Ho provato vergogna di me, della malattia, di quello che, per chi conosce la mia amata maschera, può pensare di me sapendomi “malata”.
Ho paura del giudizio e dell’ignoranza su questo male. Sì, questo è quello che razionalmente ho cercato di raccontarmi. In realtà non provo vergogna per un giudizio sociale. In realtà, provo vergogna per la mia storia, per il dolore che porto dentro.
Per tanti anni ho cercato di nascondere la mia identità, le mie origini, cambiando nome presentandomi con nomi e cognomi italiani, non prendevo il sole l’estate perché volevo rimanere con la pelle chiara, mettevo sempre maglie lunghe anche con 40°e un fondo tinta ultra chiaro per assomigliare il più possibile ai miei compagni italiani. Poi a scuola durante l’appello, scoprivano che ero straniera, un nome e un cognome così caratteristico non poteva essere italiano… raccontavo che solo mio padre era del sud America e che mamma era italiana.
Volevo a tutti i costi cambiare cognome, e farmi adottare dal nuovo compagno di mamma, che era italiano.
Per tanti anni ho provato un senso di vergogna verso di me, verso le mie origini, ed ho sempre pensata di essere diversa dagli altri… provavo sempre un grande vuoto.
Mi sono ammalata di disturbi alimentare che ero molto piccola. Mia madre ci lasciò in Ecuador per circa due anni con una zia, avevo 5 anni quando lei partì per l’Italia. Con zia facevo il digiuno di protesta, buttavo il piatto per terra e non volevo nutrirmi, quando mi obbligavano a mangiare davanti a tutti i cugini (erano in 4 più me mio fratello più piccolo) mi mettevo la mano in bocca per far capire che avrei vomitato. Dentro di me sentivo una grandissima rabbia e un senso di abbandono enorme da parte di entrambi i genitori. Ricordo molto poco del periodo in Ecuador, ma ciò che mi è rimasto di quel periodo è il non essere mai stata protetta da chi avrebbe dovuto proteggermi.
Ho subito abusi da più persone in quei soli 7 anni di vita, ed è un tema che affronto solo oggi, grazie anche ad un messaggio che mi ha scritto mia cugina facendomi emergere sensazioni e stracci di ricordi, ma soprattutto al percorso di cura che ho scelto di fare.
I seguenti anni non sono stati da meno: l’arrivo in Italia, il narcotrafficante, gli abusi subiti da mio fratello e da un cliente di cocaina del compagno di mia mamma.
Mamma che per lavoro faceva la prostituta e rubava auto. Mamma che di notte spariva, mamma che veniva massacrata di botte davanti a noi da quell’uomo. Sangue e urla, grida disperate e pianti. “io ti ammazzo” ricordo bene queste parole, quell’uomo la minacciava di morte dicendo che noi saremmo finiti dagli assistenti sociali, o rimandati in Ecuador… non passava un secondo che non provassi un grandissimo Terrore. Questo per tutto il periodo trascorso a Milano, finché andava tutto “bene”. Poi gli affari illegali iniziarono ad andare male (quell’uomo era uno dei capi narcotrafficanti di Milano), abbiamo trascorso un periodo molto lungo a nasconderci, a vivere in diverse case con le tapparelle chiuse, al buio… non potevo vedere la luce del giorno, non potevo giocare, non potevo parlare… dovevamo fingere di non esserci più.
A scuola venivamo scortati, e non potevamo parlare con nessuno. Poi una notte scappammo in trentino, in un paesino dimenticato da Dio… finalmente la luce, la natura, i boschi, la vita.
Ma non era finita, quell’uomo continuava ad essere violento e si ubriacava a tal punto da perdere la ragione, picchiava mamma e picchiava il cane, tanto da lasciarli quasi senza sensi a terra, sempre davanti a noi, come se dovessimo imparare qualcosa. Un giorno finalmente mamma decise di lasciare quest’uomo e di rifarsi una nuova vita. Non fu facile, quest’uomo era peggio di una sanguisuga, ma alla fine, grazie ai carabinieri, ci lasciò in pace.
Mamma s’innamorò di in altro uomo. Un altro capitolo della mia vita, l’ennesima delusione d’uomo. Un uomo depresso che si rifugiava nel suo lavoro, davanti a tutti dimostrava grande allegria, ma dietro le quinte esplodeva e nei periodi di alta stagione andava fuori di tenta. Ho lavorato nella sua pasticceria dai 13 anni, sempre sfruttata, però mi gratificava, perchè mi faceva sentire importante, che valevo. In questo periodo la malattia si fece più feroce, dopo lunghi periodi di restrizione, arrivava lui, il mio mostro. Aspettavo con ansia che arrivasse quel momento tutto mio, dove io e il cibo diventavamo una cosa sola, dove potevo ingozzarmi con tanta foga e vomitare tutto fino alla fine. La bulimia per me era la mia salvezza come una sorella che proteggeva e anestetizzava tutto quel dolore.
Amavo tanto la bulimia perché solo lei mi faceva sentire viva. Così iniziai a programmarmi i digiuni di settimane, in modo da provocarmi una reazione bulimica molto potente, tanto da tagliarmi il fondo della gola con le unghie nel momento del vomito, mordermi le mani strappandomi la pelle con i denti durante l’abbuffata.
Odiavo tutto di me, e volevo vedere il sangue che usciva dalle braccia, volevo punirmi, picchiarmi, volevo sentire. Cercavo disperatamente di sentirmi viva attraverso il dolore fisico. Questo fino ai diciassette anni, finché non iniziai a sentirmi in colpa… “era colpa mia se mi stavo uccidendo” mi ripetevo, iniziai a seguire dei percorsi che facevo a modo mio, dove dettavo io le mie regole. Non sono mai durati più di 4 mesi. Poi incontrai l’amore, e scappai di casa a 18 anni. Rimasi in cinta, ed ebbi un aborto spontaneo. Il sintomo era ancora potente ma ero convinta di poterlo controllare e di scegliere io quando averlo. Con questo ragazzo sono stata insieme 7 anni, dove ho ripercorso un po’ del mio passato… Lui era la mia dipendenza affettiva, mi autorizzava a stare male, a sentirmi sempre sbagliata, brutta, inadeguata.
Ero la sua ombra, e provavo un gran godimento nel sentirmi così. Non riuscivo a stare nemmeno un secondo senza di lui e dovevo controllarlo sempre. Anche lui faceva uso di sostanze stupefacenti ed io dovevo salvarlo, Sì perché io sentivo di avere il potere e il dovere di salvarlo. Avvertire questo potere mi faceva sentire Superiore e rafforzava il mio controllo sulla malattia, perché lui tossicodipendente, aveva un problema socialmente riconosciuto, e doveva farsi aiutare.
Ho iniziato l’università come educatrice sociale poiché volevo lavorare nelle comunità per tossicodipendenti. Durante gli anni universitari ho iniziato a studiare anche psicologia cercando di trovare una cura “fai da te” per la mia malattia. Decisi così di lasciare il mio ex ed iniziare a prendermi cura di me. Nei libri di psicologia dello sport trovai la risposta e mi rifugiai nello sport: un’altra situazione autodistruttiva. Andavo a correre per Chilometri e chilometri perché era l’unico modo oltre alla bulimia che avevo per sentirmi viva. Attraverso la corsa che spesso durava tre ore, io sentivo il potere di poter controllare la bulimia.
Poi caddi in una profonda depressione, non riuscivo più ad alzarmi dal letto. I miei amici mi portavano fuori a bere. Ed io bevevo come se non ci fosse un domani, mi risvegliai più volte confusa nel letto di persone sconosciute. Mi facevo schifo volevo vomitare talmente tanto che non volevo più rialzarmi da quel water. Ho iniziato ad utilizzare anche le persone, e andai a convivere con un ragazzo per costruirmi di nuovo un’identità sana, ma non sapevo nemmeno come stare al mondo. Volevo solo sparire, volevo morire. Il sintomo era così potente che iniziai a vomitare sangue, iniziai a perdere sangue anche nelle feci. Un giorno, rimasi quasi soffocata e lì, da dentro provai una gran voglia di riprendere la mia vita e chiamai disperata mia madre.
Questa volta volevo seguire un percorso vero, mamma chiamò MondoSole, ed è così che ho conosciuto ChiaraSole. Mi ha salvato la vita, mi ha ridato la vita. Oggi finalmente sono io a scegliere come voglio vivere, e come affrontare la quotidianità. Per me il percorso di cura inizialmente era una sconfitta, perché non sono stata abbastanza forte per curarmi da sola. Ma oggi posso dire che l’atto di forza più grande che ho avuto è stato chiedere AIUTO. Oggi, il mio percorso continua, e non finirà presto, perché fa così parte di me, della mia quotidianità che è diventato il mio stile di vita. Uno stile di vita inedito, pieno di emozioni, amore, e gran gioia. Finalmente oggi posso piangere senza nascondermi nei sintomi. Finalmente oggi posso costruire me stessa e posso fidarmi delle persone che mi sono accanto. Grazie Chiara, Fiorella, Even. Grazie compagne e amiche di percorso ❤
F.