IO O LA MALATTIA? DISTURBI ALIMENTARI: Inizio. Il mio nome è Desirè e e ho venticinque anni.
Mi piacerebbe dirti a che età iniziò la mia malattia, ma non saprei darti una risposta.
Fin da bambina, ho avuto diversi “disagi” importanti con il mio corpo, tanto da rimanere in canottiera persino al mare all’età di soli nove anni. Rimanere in costume? Non esisteva.
Paturnie e fisse, dicevano; lo facevo di proposito per farmi dire il contrario, dicevano. Il disagio lo ricordo bene, ma questa non è la parola giusta: era “solo” dolore oscuro. Se avessi potuto mi sarei tagliata la pancia, punto estremamente sintomatico per me. Non la volevo sul mio corpo, non doveva far parte di me. Le spalle e la schiena, entrambe mascoline; mi sarei tagliata anche quelle.
Mi concedevo il cibo che ritenevo mi piacesse perché ancora non era diventato il mio tutto e niente allo stesso tempo. Il maritozzo a colazione, i Kinder pingui per merenda, la pizza con würstel e olive del mercoledì sera e i tortellini pasticciati del sabato. Che goduria.
Ero una bambina solare, che amava giocare con gli altri e che non si escludeva mai, che si divertiva ad imitare chiunque e qualsiasi cosa e che si allacciava le scarpe in un modo tutto suo, ma ero totalmente (e giustamente) inconscia di quello che si sarebbe scatenato in me negli anni a seguire.
Ai tempi delle elementari iniziarono a vedersi i primi segni. Io ero quella bambina che aveva bisogno del suo modo di fare per non essere esclusa, era un bisogno per me.
“Non potevo litigare” con nessuno perché poi sarei rimasta senza amici e a tal proposito ero sempre quella bambina che chiedeva scusa e il permesso di essere ancora resa partecipe al gioco di quel momento.
La mia era una richiesta di aiuto, di non essere abbandonata, avrei fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, pur di essere accettata e allo stesso tempo diventare un’altra Desi.
Una Desirèe che non fa alcun passo verso qualcosa, che ha paura persino della sua ombra perché non si fida neanche di quella, che si sente completamente inadeguata a qualsiasi situazione: non sa più chi è.
Il mio primo sintomo scoppiò proprio alle superiori, il Binge Eating.
Non sapevo cosa fosse, non riuscivo ad identificarlo poiché l’unico bisogno che sentivo era quello di mangiare cose buone, ovviamente di nascosto. Succedeva quasi sempre nel pomeriggio con mia madre in casa e la mia unica missione era quella di poter mangiare ciò che pensavo di non meritare senza farmi scoprire da lei.
La tachicardia, la ricordo talmente bene, che la sento ancora adesso, una botta di adrenalina assurda, una droga per me.
Questi episodi erano, però, forti emotivamente, ma non quantitativamente. Infatti riuscivo a mascherare il sintomo attraverso lo sport, la danza e le mille diete.
Ho avuto per cinque anni una personal trainer ed avevo bisogno di lei come l’aria quando la dieta non bastava più. Affogavo in un continuo yo-yo dal quale non riuscivo a sottrarmi, avevo il terrore di potermi fermare anche solo un istante e sentirmi travolta da tutta la merda nera che non volevo vedere.
Alzai l’asticella durante la mia prima dipendenza affettiva.
Si dia il caso che lui fosse proprio un personal trainer. Un ragazzo molto posato, ossessionato dalla sua figura, a partire dal corpo fino ad arrivare alla sua posizione sociale.
Soffriva di vigoressia e non a caso ci siamo scelti nella malattia perché dipendevamo l’uno dall’altro. Ognuno aveva il proprio ruolo, chi vittima, chi carnefice e la cosa più aberrante era che entrambi godevamo enormemente nel vestire ciascuno i propri panni. “Hai la pancia”. “Non puoi vestirti così se non sei con me”. “Non puoi uscire con le tue amiche”. “Non puoi parlare con un ragazzo perché mi manchi di rispetto”. “Non puoi trasferirti ad Urbino per l’università”. “Ora sono io il tuo personal trainer, devi fidarti solo di me perché solo io riuscirò a farti dimagrire”.
Era il mio mondo, lui, lui, lui. Non ero in grado di constatare che quella situazione era per me una prigione, perché conoscevo solo quella modalità di affetto maschile nei miei confronti che io interpretavo come amore. P. era ossessionato dal voler cambiare città sperando in una situazione economica più agevolante; voleva far soldi, tanti soldi, sporchi.
Infatti quando lo conobbi, giravano voci sul fatto che lui spacciasse e che cambiasse letto una notte e l’altra pure. Ma lui mi aveva scelta.
Mi ricordo le enormi liti con i miei genitori, soprattutto con mia madre. Avevano tanta paura, ma la mia sfida nei loro confronti aveva una posta altissima, ed ero pronta ad alzarla sempre di più purché mi vedessero. Scappavo di nascosto per poterlo vedere.
Adoravo scappare verso un qualcosa di esuberante e adrenalinico, una via d’uscita da quella figura di “brava e buona” che conservavo con me come fosse la mia carta d’identità. Dopo due anni di “relazione”, P. si trasferì a Malta, poi tornò, poi volle trasferirsi in Svizzera, poi a Milano, poi a Londra. Chissà cosa stava cercando, o meglio, da cosa voleva scappare.
Fu proprio in Inghilterra dove io, penso per un inconscio bisogno di sopravvivenza, scoppiai. Lo accompagnai per supervisionare la situazione e le sue possibilità lavorative, ero come una spalla, un sostegno, una madre che accompagna il figlio in un posto nuovo.
Proprio così, lui mi vedeva come una presenza costante e certa nella sua vita, cosa che per la sua storia non aveva mai avuto. Volevo trasferirmi assieme a lui, ovunque fosse io dovevo stargli accanto proprio come un’ombra. Passavamo tutte le giornate alla ricerca di palestre, di negozi di prodotti per il body building, da una banca all’altra, da un supermercato all’altro, da un’agenzia all’altra.
Ero stravolta. L’ultimo giorno di viaggio esplosi come una bomba, non sopportavo la sua presenza, che mi toccasse, provavo un senso di schifo che ancora mi fa venire i brividi. Tornai a casa quindi da sola, lo lasciai senza dargli una risposta, scappai da lui. Lui non capiva, non lo accettò. Ad oggi mi vien da dire, per forza!
Non mi sono mai espressa liberamente con lui, non esprimevo i miei bisogni e i miei disaccordi, non imponevo a prescindere da lui le mie necessità ed esigenze; cara mia, ancora non le conoscevo perché lui era la mia unica dipendenza in quel momento, un sintomo potentissimo, quindi qualsiasi cosa o comportamento che avrebbe potuto minare la sua presenza non era concepita.
Io non esistevo più, non c’ero, sopravvivevo nella ricerca patologica di una sua accettazione nei miei confronti. Persi qualsiasi capacità di “controllo” su ogni mio rito ed abitudine, le abbuffate avvenivano quando non ero con lui, quando scappavo da lui, e queste non dovevano essere assolutamente rintracciabili.
Se stavo troppo tempo con lui, mi sentivo mancare l’aria, ma appena mi sottraevo a questo stato di costrizione per poter evadere, rimpiangevo immediatamente quel nido sicuro che avevo abbandonato. Era un continuo yo-yo pure qui.
Il mio rapporto con il sesso opposto si può quindi riassumere in tre semplici parole: controllo, castrazione e paura dell’abbandono. “Fai di me ciò che vuoi, basta che mi rendi visibile ed importante”.
Ho subito abusi anche sul posto di lavoro, ai quali non riuscivo a sottrarmi. Provavo un senso di godimento assurdo nel sentirmi posseduta da qualcuno, nel mettermi nella storica posizione di vittima e buona per non darmi la possibilità di reagire, non darmi valore.
Dal punto di vista sintomatico, l’illusione di controllo svanì del tutto quando mi trasferii nella mia città universitaria: qui iniziò un lungo calvario che mi portò poi a chiedere aiuto per forza.
Iniziai una restrizione alimentare assurda, era tutto troppo, assunsi una visione anoressica di vita estremamente dolorosa e castrante.
Qui iniziò la bulimia, la mia vera amica, la mia salvezza. Era l’unica che mi permetteva di eliminare dal corpo sia una mela che una quantità di cibo che mi impediva persino di camminare.
Passavo da un periodo di estrema restrizione all’abbuffata della vita. “E’ l’ultima volta Desi, da domani riinizi da capo”. “Solo un biscotto”. Nelle abbuffate passavo dal gelato, alle verdure congelate, poi di corsa in bagno. Ricordo le lacrime su quel cazzo di wc, gli occhi gonfi, la faccia gonfia, le nocche viola, l’odore del vomito, il rumore del phon che mi “copriva”, la gola che bruciava e persino il godimento nel sentire che il mio corpo cacciava via quelle quantità di cibo.
I dolori allo stomaco, le gambe atrofizzate, lo specchio che mi gridava “fai schifo! Sei troppo grassa”.
Arrivai a vomitare sangue e la pleura quando non avevo più nulla da eliminare.
La bulimia era sia la mia miglior amica che la mia peggior nemica. Ho da sempre avuto il terrore del vomito, fin da bambina e proprio per questo la lasciai come ultima via di salvezza e speranza.
La prima volta che vomitai, me la ricordo molto bene: la paura delle mie dite in gola, il metterle e toglierle continuo dalla bocca e la voce del demone che mi diceva “dai che ce la fai, prima lo fai, prima finisce e meglio stai”. Iniziò tutto in quel lavandino, lo stesso lavandino che inaugurò mia madre tanti anni prima.
Lei è da sempre stata la mia spalla, l’unica che poteva capirmi, la mia migliore amica, colei che mi consigliava cosa mangiare, colei che mi accompagnava dai mille dietologi, colei che mi portava dalla parrucchiera fin da piccola, che mi comprava gli stessi vestiti che indossava lei. Ricordo una salopette bianca, la stessa ma di taglia diversa; compravo qualsiasi vestito che piacesse a lei e non a me.
Nella mia testa l’unico modo per poterle star vicino era quello di essere come lei. Aveva bisogno di me, io la ascoltavo sempre, la aiutavo, non volevo deluderla, la supportavo e difendevo come se fosse la mia unica missione sulla terra.
Sono stata fortemente legata a lei in una relazione simbiotica senza via di uscita, era la mia confidente; io ero diventata la mamma e lei la figlia.
I ruoli si erano completamente capovolti e man mano che la malattia avanzava, mi sentivo sempre di più mancare il respiro.
Arrivai alla non sopportazione della sua figura e al continuo scontro nei suoi confronti.
Volevo vincere, anche se questa illusione mi portava sempre più alla retrocessione perché non potevo permettermi di crescere senza di lei, di lasciarla sola (e quindi di sentirmi io stessa sola) e di poter diventare una donna, scoprendo la mia femminilità.
Questa era una cosa che non mi era concessa: dovevo rimanere una bambina che vestiva i panni di un’adulta, non potevo sbloccare la mia crescita, non potevo scovare i miei bisogni, non potevo.
Così, i sensi di colpa divennero i miei migliori amici e riempivano quel vuoto nel quale si celava il terrore atroce di diventare grande. Era un pensiero talmente lontano, inesistente.
Tutto ciò mi portò a vedere mio padre proprio con gli occhi di mia madre, ovvero una figura apatica, possessiva, pretenziosa ed estremamente sminuente. Cercare la sua approvazione divenne l’altra mia missione di vita: essere perfetta ai suoi occhi.
Qualcosa però non combaciava; per me, mio babbo era la persona più buona ed altruista sulla faccia della terra, lo amavo infinitamente e non sto parlando dell’amore naturale che un figlio prova per il proprio genitore, bensì di un innamoramento vero e proprio.
Tutto ciò mi portò a formulare tutta una mia convinzione sul concetto di amore: se mi taglia le gambe e mi castra, allora mi ama perché sono buona, la più buona di tutte e questo concetto mi portò a vivere come tale qualsiasi relazione che ebbi poi.
Passività e bontà, questo era quello che mi differenziava da tutte le altre, la mia capacità di comprensione ed annullamento.
Solo poi capii che tutto ciò mi serviva per contraddistinguermi dalla figura materna dalla quale mi sentivo da sempre oscurata e in competizione. Non potevo essere femminile, ma solo buona.
Il demone cresceva sempre di più ed era diventato ingestibile persino ai miei occhi. Avevo bisogno di aiuto perché qualsiasi sfera della vita si era fatta inabitabile.
Così scrissi a ChiaraSole e pochi giorni dopo la vidi. Non penso di essermi mai sentita così capita, mi ascoltava! Sapeva di cosa stavo parlando, sentivo la sua mano su di me e fu proprio in quel preciso istante che vidi per la prima volta come la malattia avesse preso dimora e possesso della mia anima più profonda.
Mi spaventai tantissimo, fui terrorizzata ed è proprio per questo motivo che ascoltai ancora una volta quella voce subdola che mi disse “puoi e devi farcela da sola”, ma dopo un mese capii che era impossibile sconfiggere questo male senza acquisire alcun strumento di conoscenza.
Così decisi di iniziare il mio percorso a MondoSole per capire le reali motivazioni che mi hanno portata ad ammalarmi e ad anestetizzare ogni emozione, così scappando dalla realtà.
Il mio percorso è stato molto altalenante per i primi due anni, scappavo a casa, non parlavo, non riuscivo a fidarmi ed affidarmi e non volevo stringere rapporti con nessuno.
La reale motivazione è che stavo ancora scappando da me stessa: avevo paura di sentire, non volevo, me la raccontavo e rigiravo milioni e milioni di volte. Non riuscivo a sostenere il “distacco” dalla mia famiglia, non mi volevo riconoscere in una persona completamente diversa da quella che ero. Avevo paura di osare, ma tutto ciò non reggeva più, il castello di carta fu scaraventato a terra.
Ad oggi, mi sto concedendo di vivere questo percorso di cura e quello che posso dirti è che nonostante il terrore di scoprirmi, sto conoscendo un mondo difficile da descrivere.
Un mondo dove la mia parola vale, viene ascoltata e compresa, un mondo fatto di relazioni vere e concrete e di libertà di espressione. Parlare ti salva, ma ti salva davvero.
Non smetterò mai di ringraziare Chiara, Fiorella ed Even per il loro sostegno, ma lo dico davvero. Le ritengo le prime persone di cui mi sono fidata per davvero, anche se ho impiegato parecchio tempo per capirlo.
A te che leggi, voglio solamente dirti una cosa che sento dal cuore: parlare davvero ti salva e anche se all’inizio ti sembrerà un evento che non accadrà mai, puoi farlo diventare realtà. Quelle parole che hai nel cuore, puoi pronunciarle, ne hai il diritto!
Cambiare è difficile, ma non cambiare è letale.
Desirèe
Fai le cose difficili quando sono facili, e inizia le grandi cose quando sono piccole. Un viaggio di mille miglia deve iniziare con un singolo passo.
Lao TzuMolte cose, non è perché sono difficili che non osiamo farle, ma perché non osiamo farle che sono difficili.
Seneca