IL BINGE EATING E’ STATO IL MIO INFERNO
Di Linda Marino 30.07.2014 foto scattata da Daria Addabbo
A 14 anni volevo spogliarmi da un corpo ingombrante, che non mi rispecchiava.
Non ero grassa, ma paffutella, e questo mi faceva sentire inadeguata rispetto alle mie coetanee. Così mi chiudevo in me stessa, evitavo le comitive e le compagnie numerose. Avevo bisogno di conferme, sempre e comunque, e volevo essere “l’unica”. Ecco perché preferivo i rapporti di amicizia “a due”, insomma, avere una sola amica per la quale essere insostituibile. Fino a quel momento, avevo saziato la mia fame di affetto con qualsiasi cosa di commestibile mi capitasse a tiro.
Già dalle elementari, il cibo non mi bastava e spesso mi arrampicavo di nascosto sul tavolo della cucina per rubare le merendine dalla dispensa.
Poi, al primo anno delle superiori, non ho retto il confronto con il mondo degli adulti e ho iniziato la mia prima dieta ferrea. Era l’inizio della fine, perché a quel momento, ne sarebbero seguiti altri di digiuno e di fame feroce.
Quella di mettermi a stecchetto, era stata una decisione che non avevo sbandierato ai quattro venti, non avevo neppure chiesto il parere dei miei genitori, e nessuno sembrava allarmarsi, perché, fortunatamente, ero normopeso, non c’erano evidenti segnali di magrezza nel mio corpo. Per gli altri, ero la classica ragazza che stava iniziando una dieta perché non si piaceva abbastanza, e invece, quello era solo l’inizio di un incubo.
Gli anni delle superiori furono come un buco nero di sofferenza che mi aveva assorbito in toto. Pochi amici, moltissimo studio, tante, troppe incertezze, e un solo desiderio, quello di rifugiarmi a casa, tra le braccia della mia famiglia. Il mio rapporto con il cibo continuava a essere malsano, ma cercavo di non dare troppo nell’occhio, di mangiare da sola, prima che i miei tornassero a casa, e poi evitavo le occasioni sociali, quelle in cui c’era da sedersi a tavola con altre persone.
C’erano giorni in cui mi cibavo soltanto di carote crude e insalatine e mia mamma cercava di ingolosirmi comprando dolci e cose buone che io nascondevo per non cedere al desiderio. Le stesse cose che nascondevo io, le andavo poi a cercare nei momenti di compulsione. C’erano infatti periodi in cui oscillavo tra l’anoressia e la bulimia, con un fare camaleontico. Quando prevaleva il sintomo bulimico, ingoiavo di tutto e poi correvo in bagno a vomitare. Lo facevo soprattutto quando ero da sola in casa, mentre quando c’era qualcuno, portavo la radio in bagno, e vomitavo senza che nessuno potesse sentire i miei sforzi. Mi chinavo sul water, poi, una volta fatto, mi sciacquavo il viso, mi guardavo allo specchio e un ghigno di soddisfazione si materializzava sul mio volto. Dopo qualche minuto, invece, stavo da schifo, in colpa con me stessa e con gli altri, ma dovevo fingere, stamparmi un sorriso finto sulla bocca, come se tutto andasse bene.
Fino a quel momento, avevo considerato la mia casa un porto sicuro dove ormeggiare, inoltre, uscivo spesso con mia mamma, in vacanza andavo con i miei genitori, ma pian piano, ho sentito il bisogno di fare qualche viaggio studio all’estero per provare ad uscire dal guscio protettivo familiare. A 19 anni, dopo il diploma, mi sono allontanata dai miei per un periodo più lungo, per scindere quel cordone ombelicale che mi legava a loro. Così, mi sono trasferita a Londra, per appropriarmi, per la prima volta, della mia identità.
Quello che per tutti era un atto di coraggio, per me era un tentativo di fuga dal senso di vuoto che mi opprimeva. In Inghilterra, però, ho perso la bussola, mi sono sentita sola, spaesata, disorientata come mai prima, e così ho iniziato a colmare la fame di amore abbuffandomi di continuo. Mi ritrovai davanti a una violenza inaudita: quantità di cibo inimmaginabili, uno stomaco che esplodeva di dolore, schifo e sensi di colpa per qualcosa che non riuscivo a fermare. Aprivo il frigorifero e mi ingozzavo di qualsiasi cosa mi capitasse sotto tiro. Cercavo di saziare una compulsione irrefrenabile con una ferocia violenta. Nel giro di due mesi, ero ingrassata di venti chili.
Quel bisogno ossessivo di cibo si chiamava binge eating, ma io, a quel tempo, non sapevo nemmeno cosa fosse. Stremata da mesi di compulsione e lontananza da casa, ho capito che da sola non potevo farcela, così sono ritornata in Italia. L’esperienza di Londra mi aveva massacrato ma volevo provare veramente a voltare pagina. Ero sfinita, psicologicamente e fisicamente, ma a casa dicevo che ero soltanto un po’ depressa, quanto al mio aspetto fisico, non destava preoccupazioni perché, alternando i digiuni alle abbuffate, non ero né scheletrica né obesa.
Ho sentito il bisogno di rivolgermi a uno psicologo perché volevo sentirmi una ragazza normale, poi mi sono iscritta all’Università, e nel frattempo ho conosciuto un ragazzo per il quale ho perso la testa. Nel giro di pochi mesi le abbuffate sparirono e io pensavo di aver risolto il mio rapporto malsano con il cibo, solo dopo ho capito che io, invece, ero ancora malata. Perché? Perché avevo dirottato la mia fame di attenzione, dal cibo a quel ragazzo con cui avevo intrecciato una storia turbolenta. L’ossessione per il cibo era passata in secondo piano, perché era la simbiosi con il mio fidanzato che occupava le mie notti, le mie giornate. Era lui che aveva il monopolio dei miei pensieri. Mi nutrivo di una storia costellata di conflitti, lacrime amare, litigi, un rapporto malato che non avevo la forza di troncare, perché non era amore ma l’ennesima forma di dipendenza. Passano così tre anni, io finisco l’università e torno a viaggiare e spostarmi per studio e lavoro, ma con la lontananza da casa e il distacco dal fidanzato simbiotico ritornano prepotentemente le abbuffate. Pensare di non ricadere più in quel vortice di autodistruzione era stata solo una vana illusione. Ripiombai quindi nella spirale fatta di riti, bugie, maschere, cercando di adeguarmi agli altri, plasmando il mio carattere a seconda delle esigenze altrui. Interpretavo vari ruoli, persino quello della ragazza sicura di sé, e questo mi accadeva soprattutto quando mi lasciavo andare all’alcol e allo sballo, toccando picchi di euforia apparente.
Poi, quando rimanevo da sola, mi abbandonavo alla forma di distruzione fisica che più sentivo mia, la bulimia. Con la valigia in mano, su e giù per l’Europa, ovunque andassi o mi trovassi, sentivo sollievo soltanto quando mi ingozzavo per poi correre in bagno e vomitare, tirando fuori tutta la rabbia e il grido di solitudine che non sapevo esprimere a parole. Tutto questo, nel tentativo di anestetizzarmi, di non sentire il dolore che spingeva dal profondo. Arrivai allo stremo delle forze, sfinita da tutto e non so come, riuscì a lasciare il mio fidanzato. Ma da lì iniziò il peggio: giornate intere trascorse a letto, non volevo più mangiare, né bere, non avevo più la forza di vivere, volevo solo che tutto finisse.
Avrei fatto di tutto pur di non sentire quel dolore che premeva forte sul petto. Ma proprio questa rottura mi gettò nella disperazione totale, facendomi comprendere che avevo bisogno di aiuto. Così, mi sono alzata da quel maledetto letto e ho abbandonato quella stanza che era diventata una prigione. Il destino ha voluto che mi trovassi proprio a Rimini per lavoro, a pochi passi da MondoSole, un Centro per l’anoressia, bulimia, binge (DCA) a Rimini, che svolge un servizio di cura, riabilitazione e reinserimento sociale delle persone con disturbi alimentari.. Così, con la spinta di un’amica che aveva capito tutto, li ho chiamati e mi sono presentata. Quando ho conosciuto Chiara, la fondatrice, per la prima volta ho potuto parlare senza freni dei miei sintomi, senza provare vergogna, o pudore. Sono entrata a MondoSole in punta di piedi, con la paura di non esserne all’altezza o di non essere accettata. E invece, con il tempo, come un bambino che scopre il mondo lasciando la mano della mamma, ho imparato ad accogliere le mie paure. Ho intrapreso un lavoro introspettivo attraverso il quale ho fatto posto ai fantasmi che mi avevano perseguitata sino a quel momento.
Quanto al cibo, ho capito che il mio rapporto malsano era solo la punta dell’iceberg, perché in realtà io avevo fame di essere amata, desiderata, scelta ed é una fame vorace che non é mai sazia, perché né il cibo, né qualsiasi altra cosa, avrebbe mai potuto soddisfare quel bisogno così apparentemente incomprensibile, che però aveva radici lontane nella mia storia, e che ho dovuto riconoscere e capire per dare un senso al mio dolore e trovare la forza per aprirmi agli altri e a quei piatti che fino a qualche mese prima guardavo con terrore.
Durante il percorso ho conosciuto il ragazzo che oggi è il mio compagno e che amo senza ossessioni. La dipendenza, sia quella affettiva, sia alimentare, non mi appartiene più perché ho trovato dentro di me quel benessere che ho cercato invano al di fuori in tanti anni di malattia e tanti viaggi in giro per il mondo. Amo chi mi circonda ma, soprattutto, amo la persona che vedo quando sono davanti allo specchio.
Il binge eating è stato il mio inferno. Valentina su TuStyle
Intervista a Valentina (MondoSole) su TuStyle. Grazie infinite a tutta la redazione ed in particolare a Gloria Brolatti e a Linda Marino.
Clicca per leggere (30 Luglio 2014)
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