I DCA nel periodo storico del Coronavirus. Riflessione e testimonianza:
PUNTO 0 E SETTIMANA 1
21 FEBBRAIO 2020, ORE 11
È arrivato proprio il momento; per lei Zelda, per me, per conquistare una pace dal dolore fisico che le è dovuta. Il bene, l’affetto non sono in discussione, ma sono proprio il motore principale di questa scelta, così definitiva, che però nulla toglie ai 15 anni e mezzo venuti prima, vissuti insieme.
È vero, la morte è brutta, orrenda, così lapidaria e senza possibilità di ritorno. Ma sto imparando che non può cancellare tutto ciò che è avvenuto prima; tutti i gesti, le parole, le tenerezze, le arrabbiature, sono ricordi preziosi e belli. Incancellabili.
Penso a tutto questo, al marasma delle emozioni da accogliere per questa perdita ed ecco…. esplode fuori qualcosa di grande, un virus che colpisce il mondo intero, piano piano, togliendo poco alla volta certezze, abitudini…
Eccolo in mio “aiuto”, l’appoggino subito alla mia portata, perché non senta quella perdita.
Per chi soffre di DCA è così normale creare sostituti, tappi, sintomi che distraggono dal sentire troppo potente e doloroso, che illudono e imprigionano ancora di più.
In questa prima settimana di “COVID-19”, in cui il nido dove lavoro chiude, chiude parzialmente il mio centro di cura MondoSole, ecco che prende vita il “fantastico” spostamento dal dolore: paura di interagire, di toccare l’altro, gli oggetti, guardarsi le spalle continuamente, l’ossessione del lavaggio mani, corpo, vestiti, tutto.
Sono concentrata lì, solo lì, su questo mostro invisibile che stringe un patto con i DCA e si annida nelle mie storiche debolezze, nelle mie storiche resistenze, nel pericolo che rappresenta per me L’ALTRO, da sempre.
Che confusione, che paura… VIA, VIA TUTTI, ALLONTANATEVI!
Poi, d’improvviso, qualcosa dentro di me capisce, forse un po’ in ritardo, ma capisce; gli strumenti acquisiti fino ad ora nel percorso di cura reagiscono; li sento tintinnare e decido di usarli, di capire che il Covid-19 è una realtà crudele, ma che mi sta servendo per non sentire la perdita di Zelda, che si somma a tutte le altre perdite della mia vita.
Accidenti, ci sono cascata!… Ma è normale così, fa parte del “pacchetto” dei disturbi alimentari, dell’abitudine a ricorrere a tappi, sintomi per anestetizzare il dolore.
Sta a noi, a me decidere che una volta compreso l’inganno, non ci voglio più stare.
Sta a me respingere l’ossessione quando bussa e riposizionarla, guardare davvero quello che vuole coprire. Non è facile, lo ammetto, ma farlo è un dovere verso me stessa. Me lo devo! Per la fatica che ho fatto fino ad ora e le conquiste che mi sono meritata.
Vinco io alla fine di questa settimana e, pacca sulla spalla, vedremo la prossima….
SETTIMANA 2
Non è facile resistere ai tranelli dei DCA! A volte l’impegno, la tenacia, la conoscenza di come funzionano non basta; sarei ipocrita a dire il contrario. Ci sono momenti in cui quello che senti ti appare reale, ma non lo è. E ti è utile così.
Il nido riapre; che paura! Come farò ad interagire con persone che non so dove sono state prima? Se sono infette? Se mi toccano? Tossiscono?
Ne ho di consapevolezze, ma a volte la paura è tanta lo stesso. È purtroppo utile e protettiva così.
Per fortuna arriva un suggerimento dall’esterno (Mondosole) da questo tempo di percorso… ”affronta la paura, non alimentarla, usa lo strumento migliore che hai: agisci diversamente da come vorrebbe la malattia.”….. e via… una settimana al nido a fare lavoretti, dipingere, interagire, avere contatti…
Che forza; è proprio vero…la paura rallenta!
Certo non mi va di andare a bere caffè in giro, stare troppo vicino alla gente per strada; girare nelle case a cena, è già difficile e snervante (chissà dove sono state prima tutte loro!). Che succulento tranello!
Ci vengono già imposte piccole restrizioni, che sembrano subito ENORMI: parlano di distanze, numero massimo di persone nei luoghi, questo sì quello no…
Si riesce a fare qualche passeggiata fino al mare (che meravigliosa sensazione vederlo!), per poi fare i conti con il senso di disagio e colpa, che conosco così bene.
Sembra strano tutto, a metà tra la vita normale e una vita castrata… beh… forse nemmeno questo è così nuovo per me. Una vita strutturata nel lavoro, nel riempire le giornate seguendo rigide leggi che richiamano al DOVERE più che al piacere; in cui quando il piacere trova spazio ed osa… crea colpa e disastro.
Già, niente di così nuovo insomma.
Tranne il fatto che di lavoro introspettivo ne ho fatto parecchio per agire e vivere in modo diverso, per ascoltare ciò che desidero e viverlo, nonostante i vari nonostante…
Ed ecco ora, ancora una volta un mostro invisibile reclama la mia vita, vuole che torni al conosciuto, allo storico, al “comodo”.
Ok, Ok, forse questa settimana hai pareggiato i conti…. FORSE!!
Perché le mie consapevolezze battono i tuoi tranelli!
SETTIMANA 3…. E OLTRE….
D’improvviso le restrizioni sono diventate stritolanti: si comincia a chiudere tutto.
L’imperativo è restate a casa!!!! Cielo! Davvero? Questa comodità, questa finta perfezione che ben si incastra ad una patologia già devastante come i DCA?
D’improvviso solo video-chiamate, messaggi; l’ultima passeggiata al mare, come ladri di vita.
Ci si organizza per vedersi e salutarsi dai balconi, con la scusa della spesa, sentendosi comunque sbagliati e imbroglioni.
Poi, ecco che cresce qualcosa d’altro, stando a casa, dovendo organizzare il proprio tempo, vivendo con altre persone, sempre, 24 ore al giorno.
Senza le distrazioni del lavoro, delle uscite, degli hobby.
Cresce la sensazione della mancanza, della perdita, perché ora mi sarei goduta la mia gattina Zelda per 24 ore, appiccicate appiccicate.
Mi godo gli altri gattini; loro che ci sono ancora, e le prime carezze sono pugnalate; ma poi vince il senso di vita, vince ciò che ho imparato in questo tempo di cura, vivendo e affrontando, vivendo e affondando, vivendo e affrontando…. Devo ripetermelo solo un po’ più spesso ora, in questo momento storico così inedito.
Cresce la lotta interiore, perché devo dare spazio al piacere, alle cose che VOGLIO fare: leggere, fare puzzle, mosaici, carte, guardare la TV… Non è così facile come si crede. Non per chi non l’ha mai fatto o ne ha ricevuto in cambio serrandate dolorose o accadimenti terribili.
È una cosa che imparo a fare; stare nella frustrazione di aver letto un libro tutto il giorno, senza produrre o fare cose doverose.
Ecco cosa può esserci di buono in tutto questo: l’abitudine a far sprigionare le cose che desidero e scoprire che nulla cambia, che l’altro c’è ancora.
L’ALTRO! Già. È così lontano ora e sembra impossibile pensare di poter uscire ancora, di incontrare l’altro, abbracciarlo, relazionarsi senza timore. (Cerco di ignorare il leggero godimento che sento in questo, perché è un tranello; utile, protettivo, ma pur sempre un terribile tranello!) .
Penso che come ci siamo abituati a queste restrizioni, al silenzio della città vuota, alla volante che col megafono intima di stare chiusi segregati, così sono convinta che ci ri-abitueremo al contatto, agli incontri, alla vita che rinasce.
Del resto, e parlo per me, sono stata imprigionata nella malattia per talmente tanti anni, nel dover essere, nella castrazione, nella non vita e sono già riuscita a mettermi in gioco per cambiare tutto.
Quindi…. Fatti avanti… sono pronta anche ora: baricentro su me stessa, in posizione di attacco, pugni alti, sguardo deciso…. SI RIPARTE!!!!
Silvia V.