Sono stata una bambina, degna di questo nome: ero alla ricerca di amore, attenzione, di essere posta al centro del mondo dei miei genitori. Lo desideravo profondamente. Ho avuto un’infanzia travagliata.
Ero continuamente sballottata a destra e a manca tra casa di mia zia e casa di mia nonna.
Ho sentito una terribile mancanza di casa mia, dei miei spazi, della mia famiglia.
Mia madre si divideva in quattro tra lavoro, figli, genitori, famiglia. Mio padre lavorava come autista e lo vedevo relativamente poco.
Tra una spedizione di me come quella di un pacco postale e l’altra, ero continuamente in attesa.
Attesa che arrivasse mia madre da lavoro o dalle sue mille faccende.
<<Arrivo alle 14:00>> mi diceva… Passavano ore e ore.
Il senso di solitudine ed abbandono cresceva sempre più.
Il mio rapporto con mia madre è stato da sempre ambivalente, o meglio è diventato tale nel tempo.
Inizialmente come ciascuna bambina avevo e sentivo un grandissimo bisogno viscerale della sua presenza che nella realtà sentivo molto poco.
Elemosinavo presenza, ma “il cestino delle monetine” era sempre più vuoto, mentre cresceva in me la voragine.
Dovevo fare qualcosa. Non potevo più sentire quella spasmodica attesa.
Non potevo più concedere al nero abbraccio del vuoto di invadermi ancora.
Ho cominciato a creare “surrogati di presenza”.
Il cibo cominciava a riempirmi apparentemente.
Ho cominciato nell’attesa di mia madre a sentire una strana fame avida che non veniva da un bisogno fisiologico di cibo, bensì da un terribile vuoto che fremeva di essere riempito.
Era un buco nero fatto di mancanze, che urlava:《 ho fame》.
A tutto questo si aggiungeva un carico ulteriormente pesante rappresentato dall’educazione altamente castrante che c’era in casa.
Il “dittatore” era mio padre o almeno così lo avvertivo. Le sue ferree leggi erano dettate, inconsciamente, da una grande ignoranza rispetto alla parte più delicata e bella di se stesso, degli altri e soprattutto delle creature che aveva scelto di mettere al mondo, la parte emotiva. (D’altronde ogni genitori, come figlio, ha ricevuto una propria educazione e inevitabilmente, in buona fede, quella spesso propone).
Il suo fare categorico non ammetteva la spontaneità di me bambina.
Qualunque cosa facessi non era quella giusta ed opportuna, per cui sbagliavo continuamente.
Come una tenebrosa ninnananna tutto questo mi continuava a risuonare nella mente, convincendomi che non avrei avuto vita lunga se continuavo ad appormi a quel regime, per cui l’ho sposato.
Era l’unico modo per essere accettata e per avere l’amore di mio Padre.
La voragine cresceva sempre più.
Urlava voglio riempirmi! Voglio cibo!
L’ unica cosa sulla quale credevo di avere potere.
La strada era ormai spianata, la malattia cominciava a mostrami la faccia di una madre, un’amica che si sarebbe presa cura di me che mi avrebbe protetta da quel mondo così crudele.
Il mio sintomo principale è stato il binge eating. Mi riempivo di cibo fino a sentirmi strapiena.
Mettevo a rischio di vita il mio corpo ad ogni abbuffata.
Non c’era nulla che mi tratteneva dal compiere quell’atto che per me significava pienezza d’amore, godimento, piacere, libertà da schemi che mi soffocavano.
Nel tempo si sono aggiunti altri eventi traumatici che continuavano ad alimentare il peso del fardello che mi trascinavo dietro.
Ho provato a chiedere aiuto a diversi medici, che non sono stati in grado di comprendere la mia malattia.
Sono arrivata a MondoSole ero stremata, distrutta mentalmente e fisicamente.
Sopravvivevo non sapevo più cosa significasse vivere.
I pensieri che avevo erano per la maggior parte legati all’idea di morte. Avevo strati e strati di corazza.
Ero molto giudicante verso me stessa e gli altri.
Avevo fatto mio il regime di mio padre, indossavo i suoi abiti che mi facevano sentire forte eppure terribilmente vulnerabile.
Cercavo in ogni modo di non sentire tutta l’impotenza con l’illusione di controllo su me stessa e ciò che mi circondava.
Sono stati anni di dura lotta.
Una parte di me voleva guarire, l’altra no.
La malattia mi dava un’identità.
Era la mia storia, casa.
Mi sono impegnata tanto. Ci sono stati momenti in cui sarei scappata lontanissimo, pur volendo non potevo separarmi dalla mia malattia.
Ho compreso che per guarire dovevo necessariamente guardare ciò che avevo dentro e soprattutto tirarlo fuori con le parole.
Passavo dal non voglio curarmi al voglio tutto e subito.
La frustrazione è stato uno degli strumenti più grandi che mi ha permesso di sentire il dolore per quello che era, senza andare a ricercare scorciatoie o apparenti riempitivi che avrebbero ancora più destabilizzato la mia lucidità.
Esatto Lucidità mentale, perché quando si è “sotto sintomo” la realtà viene completamente manipolata e storpiata dalla malattia, per far in modo da ricadere nelle sue braccia tanto tenere, calde, quanto soffocanti e oscure.
Oggi il mio motto è darmi delle opportunità!
Opportunità di vedere cose nuove, di sperimentare, di conoscere, di provare.
Opportunità, di dare alla vita, attraverso le mie scelte, di stupirmi non rinnegando o cancellando il mio passato, ma avendolo ben in mente, procedendo con serenità lungo il cammino. Infatti da tempo sono convintamente una donna alla ricerca della libertà dalla malattia: i disturbi alimentari…. senza se e senza ma!!!
Mary