disturbi alimentari: “il corpo era la mia vergogna” testimonianza: Sono certa di essere amata dalla mia famiglia, tutto il dolore che ho vissuto non è stato per mancanza d’amore, è figlio d’altro. Ci sono state incomprensioni, gesti fatti con le migliori delle intenzioni e le malattie dei miei genitori.
Scrivo qui dalla casa in cui sono cresciuta e mi rendo conto che questa malattia è dentro di me da molti anni, latente; infatti da piccolina soffrivo, sentivo già il dolore forte, si manifestava nel pianto al tramonto, a momenti in cui mi sono guardata nelle foto e mi sono vista grassa e brutta.
Sentivo che mia mamma non mi voleva, la cercavo in tutti i modi, facendola arrabbiare, giocando, consolandola come potevo.
La sua malattia era come uno scudo tra lei e il resto del mondo e per arrivare a lei ho imparato il linguaggio malato dei disturbi alimentari. Non mi tolgo dalla testa quei momenti in cui la vedevo buttare di nascosto il cibo, i giorni in cui la disperazione esplodeva e come una bomba io e mia sorella ci riempivamo di schegge di un dolore infinito. Mio padre cercava di proteggerci, ma la malattia dominava la nostra vita.
Da piccola adoravo mio padre, ridevo e giocavo con lui, mi sentivo sempre al centro del suo mondo e ne avevo un bisogno incredibile. Credo di aver avuto paura di non esistere e di essere sbagliata.
Alle elementari mi piaceva studiare ma provavo una frustrazione incredibile nello studio, facevo delle sceneggiate, i miei dovevano considerarmi. Ero molto diretta, dicevo quello che mi dava fastidio, se un bambino diceva qualcosa che non mi andava bene rispondevo subito. Non mi sentivo però mai del tutto integrata.
Lo spettro della solitudine mi faceva compagnia e alterava ogni situazione. Mi sentivo molto sola.
Poi un pomeriggio, quando avevo 7 anni, in cui stavo giocando e divertendomi tanto, i miei genitori sono venuti a prendere me e mia sorella perché dovevano parlarci. Mio padre aveva un aneurisma e la situazione era molto grave. Dopo poco è stato ricoverato. Non era più lui, non si alzava dal letto, stava al buio perché aveva un mal di testa forte, una sera che eravamo andati al ristorante si è sentito male ed è svenuto e ricordo una paura incredibile che fosse morto.
Si è rotto qualcosa dentro di me, iniziai a vedermi sempre brutta, ho avuto mal di pancia per un anno e mezzo, non avevo pace dentro. Correvo tutti i giorni da scuola per sdraiarmi vicino a mio padre e dirgli che sarebbe guarito, che la vena sarebbe dimagrita.
Mio padre negli anni si è ripreso, abbiamo superato questi anni neri.
Il rapporto con mia madre era una pugnalata, mi sentivo usata, se la consolavo mi stava vicino, poi quando stava meglio, tornavo invisibile. Assistevo a scene di autolesionismo e pianti disperati pur di essere l’unica ai suoi occhi, volevo esserle indispensabile, volevo che mi vedesse in qualche modo.
Mi sentivo sempre inadeguata, avevo paura di essere esclusa sempre, mi sentivo una sfigata, il corpo era la mia vergogna, a scuola mi sentivo mediocre perché non prendevo sempre il massimo.
Avevo la passione della musica, suonavo la chitarra, ma non mi esercitavo mai, come se non dovessi mai migliorare, ma crescere. Così è stato per tutte le attività.
In seconda superiore, decisi di iniziare una dieta, mia madre mi portò da un dietologo per evitare che facessi di testa mia: il dietologo non mi capiva, voleva farmi perdere giusto un paio di chili perché ero normopeso.
In effetti io non sono mai stata neanche sovrappeso, ma mi sono vista per molto tempo grassa e dovevo risolvere questo problema. Mi dicevo così. Persi qualche chilo ma erano pochi, volevo fare di testa mia, per una volta volevo decidere io della mia vita.
Il corpo mi sembrava l’unica cosa su cui avevo potere. Nel giro di qualche mese, mio padre ha avuto un incidente in moto: era in fin di vita. Anche quella volta ho ricevuto la notizia nel bel mezzo di un momento di allegria con i miei compagni: eravamo usciti tutti insieme per comprare le cose per il viaggio che avremmo fatto la settimana dopo in Francia. Mi sentivo inclusa.
Per settimane mio padre rimase in coma farmacologico e tutti i giorni la prognosi era infausta. Io non riuscivo più ad andare a scuola, stavo solo con mia madre e mia sorella. Andavo in ospedale la mattina con mia mamma, poi non mi ricordo cosa facessi. Ero in una bolla, ho pianto i primi giorni, poi non ricordo cosa sentissi.
Ho cominciato a guardare cosa mangiasse mia madre, che era così magra, e la imitai. Non perdevo peso e la cosa mi disturbava.
Piano piano mio papà inizio a riprendersi, torno in sé, ma era un uomo fragile, scheletrico e senza muscoli per tutti i mesi steso a letto e aveva negli occhi la paura di non sapere cosa stava succedendo.
Dovevo proteggerlo; tutti i giorni andavo in ospedale a fargli sentire la musica e a camminare. Era uno strazio ma io non sentivo quasi niente, io avevo la missione di salvarlo e basta, i sentimenti erano sepolti. Ma quando finalmente è tornato a casa, io ho deciso di pensare a me e questo significava iniziare a dimagrire.
Mandai a fanculo la dieta del dietologo e tolsi cibo da tutti i pasti, sport continuamente, le persone diventavano puntini lontani nella mia vita, non sentivo più nessuno vicino, ma perdevo peso all’impazzata. I numeri sulla bilancia scendevano a picco e io mi sentivo potente, mi svegliavo affamata, ma non appena toccato le ossa sporgenti, mi dicevo che ero sulla strada giusta.
Sono stati mesi di freddo, di picchi d’angoscia nel mezzo di un sentire spento. Mi sentivo sola ma non provavo dolore perché gli altri erano un ostacolo alla mia corsa contro di me e io non volevo che nessuno mi togliesse quel senso di potere che mai avevo sentito.
Poi, durante le vacanze di natale, sono partita per un weekend a Roma con le mie due migliori amiche e si incrinò qualcosa: loro erano lì con me, ma io non le sentivo vicine, la solitudine mi fece malissimo, sentii il freddo insopportabile, mi veniva da piangere per tutto il freddo che sentivo dentro e fuori.
Sono tornata a casa e ho mangiato del pane, non so da quanto non lo toccassi e mi sembrò come una coperta che mi scaldava, poi ne ho preso ancora un po’ e persi il conto del cibo che mangiai. Mia madre mi guardava scioccata. Era finita la restrizione.
Non ci stavo più dentro, mangiavo pochissimo per giorni, poi esplodevo, mangiavo l’infinito, tutto il vuoto che mi uccideva veniva sovrastato dal cibo, mi sentivo poi un mostro, facevo sport, correvo ore e poi ricominciavo.
Era angosciante. Iniziai un percorso ambulatoriale, ma non mi serviva a nulla, chiedevo di essere ricoverata per non abbuffarmi più. “Toglietemi questi attacchi, io devo smettere, aiutatemi”. Chiedevo aiuto così.
Dopo mesi sono stata ricoverata, ero tranquilla perché avevo messo in pausa la vita e nel profondo non aspettavo altro. A volte mi rendevo conto di comportarmi come una bimba piccola, per il tipo di attenzioni che cercavo e per tanto altro.
Avevo paura di vivere, il contatto con l’altro mi spaventava, per un periodo non riuscivo ad abbracciare né a farmi toccare. Ero nella mia bolla.
Poi uscii dall’ospedale e confrontandomi con le mie amiche, mi sentivo strana e mi sentivo meno di loro, volevo riparare questa cosa, volevo recuperare, vivere le stesse esperienze.
Non avevo mai avuto un ragazzo, così ho cominciato a guardarmi intorno in maniera poco spontanea. Non ero pronta, ma volevo sembrare come gli altri.
Trovai un ragazzo “perfetto” per le mie dinamiche: una persona malata, che mi umiliava e non aveva un minimo gesto di sensibilità verso di me. Nel giro di una settimana mi tuffai nella sessualità, con una velocità e una durezza per me traumatiche.
Ero una bimba dentro eppure paradossalmente io cercavo sensazioni come umiliazione, sentirmi usata e invisibile. Non conoscevo altro e lo ripetevo inconsciamente all’infinito. Abbiamo usato tutti i miei soldi risparmiati negli anni, i miei avevano capito che c’era qualcosa che non andava ma non sapevano come aiutarmi.
Lui voleva trascinarmi nella sua spirale buia, mi incoraggiava a lasciare la scuola, mi sputava in faccia, aveva attacchi di panico spesso e frequentava brutti giri in cui mi portava con sé.
Non esisteva affetto, era massacrarsi per non sentire ognuno il proprio inferno e ho fatto fatica ad uscire da quest’incubo. Avevo paura dopo dei ragazzi, mi sono chiusa in me stessa ancora di più, ho allontanato le amiche, ho cambiato scuola per azzerare ogni vicinanza.
Mi dicevo che volevo togliere gli altri di mezzo, ma in realtà stavo mutilando me stessa.
Non passavano più di 5 giorni senza abbuffate violente e nel resto dei giorni seguivo la restrizione come un dittatore silente. Era l’unico modo per non sentire la disperazione che avevo dentro.
All’ultimo anno delle superiori è arrivata in classe una ragazza che soffriva di disturbi alimentari, in grave sottopeso. Per me è stato un pugno in faccia: lei si vedeva che stava male, io ero magra ma non uno scheletro, ero di nuovo invisibile.
Morivo dentro, mi sono chiusa in casa e nelle abbuffate quotidiane. Mangiavo tutti i giorni chili di cibo, mi buttavo a letto respirando a fatica, ho preso 20 chili in un mese e mezzo, allo specchio vedevo una bestia disperata.
Non reagivo più a niente, mangiavo e basta. Sentivo il nero coprire tutto. Ad un certo punto non sono più riuscita a lavarmi perché non volevo toccare il mio corpo. Ho detto ai professori che non sarei più tornata, che era finito tutto per me. Non vedevo più niente, non mi importava neanche di dimagrire e muovermi.
Il corpo era uno scudo ingombrante che trascinavo dal letto al divano, che non volevo guardare né sentire, la mia anima soffocata dal sintomo incessante.
Andavo in analisi in quegli anni, lo psicologo dormiva, io mi rifugiavo nel suo studio per rimanere in silenzio e dire solo che mi odiavo.
I professori hanno iniziato a chiamarmi, volevano vedermi per dirmi che ce la potevo fare e che mi avrebbero aiutato. Io non ci credevo all’inizio, avevo paura ad uscire e farmi vedere così, poi sono andata e mi sono fidata. Ho studiato, sono riuscita a diplomarmi e sono sopravvissuta a quei mesi.
Reagire si tradusse poi in iperattività e restrizione. L’obiettivo era riperdere peso. E così fu. Di nuovo “onnipotente”.
Quell’estate ho conosciuto un ragazzo che mi ha trattato con una dolcezza inaspettata, mi rispettava con tenerezza e mi vedeva. Fu sconvolgente per me, tanto che l’ultima sera, prima di tornare a bologna, dopo aver cenato insieme, sono andata in bagno e ho vomitato per la prima volta.
Ho iniziato l’università, mi sentivo adrenalinica, mangiavo e vomitavo quasi tutti i giorni, conoscevo persone nuove, mi dicevo che mi ero aperta, in realtà ero alterata dal sintomo, perché non mi avvicinavo mai a nessuno per davvero.
Frequentazioni distruttive, poi la scoperta dell’alcool per non sentire niente. Mi sembrava di aver distrutto tutte le barriere. Mi piacevano gli studi che facevo, ma puntualmente scappavo ad abbuffarmi perché non volevo sentire piacere. Io mi volevo massacrare.
Sono stata trovata nei vicoli accasciata per terra per quanto ero ubriaca. Ho blackout di ore, mi circondavo di gente che come me voleva perdersi, c’erano le canne.
Avevo degli sbalzi di peso, a volte leggeri ma i miei occhi vedevano differenze enormi: quando mi vedevo grossa, mi chiudevo in casa, quando mi sentivo magra uscivo e non mi nascondevo. Ho corso tanti pericoli, ho fatto spaventare i miei genitori varie volte, spesso apposta per farli soffrire, fisicamente sentivo dei momenti in cui il corpo cedeva e mi arrabbiavo.
Mi sono imposta di smettere di vomitare perché un giorno ho visto la faccia gialla e le ecchimosi agli occhi, chissà da quanto ero così. Intanto continuavo con gli altri sintomi con ferocia.
Mi sono laureata, festeggiando con un’ubriacatura della madonna. Lì, mi scontrai con la disperazione di non sapere cosa fare della mia vita, che era solo la punta dell’iceberg di dolori molto più profondi e antichi.
Ho deciso di fare un workshop di fotografia all’estero, portando in valigia tutto il dolore benché sperassi di lasciarlo a casa. Di ritorno, presi una scatola di antidepressivi, era un misto di provocazione e fantasia di farla finita con tutto. Per fortuna non successe niente, ma io soffrivo più che mai.
Poi mi sono data un out out: o mi curo sul serio o muoio.
Ero disintegrata: i sintomi non mi anestetizzavano più, non uscivo di casa, avevo tagliato i ponti con tutti. Non volevo arrendermi all’idea che non si potesse guarire. Io non volevo più vivere così, ero disperata, io volevo vivere a tutti i costi ma non così.
Avrei ucciso il mio dolore non me stessa.
Erano anni che in realtà attraverso i sintomi cercavo di sopravvivere al dolore.
Cercando su internet ho trovato il sito di ChiaraSole chiarasole.com @chiarasolems e ho avuto speranza. Le ho scritto e mi ha risposto subito, non ci credevo. Sono andata a MondoSole, abbiamo parlato, mi ha capito subito, come mai mi era capitato, non seguiva il mio modo manipolatorio e isterico, seguiva il mio dolore, andava oltre alla mia maschera, al mio corpo.
Era il mio posto quello, c’erano tante cose che mi spaventavano e questo mi faceva capire che non c’erano alternative se non affrontarle, se volevo davvero guarire.
Mi sono promessa di non fuggire, di rimanere finché sarebbe stato necessario. Ho vissuto molto dolore, ma era diverso, questo dolore mi ha fatto crescere, ma ha fatto rinascere, è stato necessario passarci attraverso per ritrovarmi.
A MondoSole mi sono sentita accolta, col cuore e con la profonda conoscenza del nostro male, c’erano altre persone che come me volevano vivere e che venivano dal medesimo inferno e a cui oggi sono legata da un affetto e una stima unici.
Ho imparato a fidarmi degli operatori, del gruppo e di me stessa.
Non sono più la mia nemica, l’altro non è più una minaccia.
Sto vivendo, provo sentimenti che non credevo di poter mai provare, sono felice, ho momenti di difficoltà, ma sento la vita dentro.
Ho capito il mio dolore immenso, la disperazione non è più un’ombra informe, è qualcosa in cui sono entrata, a cui ho dato un nome e da cui ho tratto la forza.
Il mio sentire ha una dignità assoluta ai miei occhi, sono onesta con me stessa. Riesco a sentire l’altro, ho ritrovato l’empatia.
Sto scegliendo come vivere, ho imparato a parlare, a scegliere cosa mi fa stare bene, a diventare genitore di quella piccola bambina che sono stata. Ho ritrovato la mia famiglia ma non ricadendo nelle dinamiche malate. Il percorso non è finito perché voglio risolvere tutto, e anche quando arriverà il momento di terminare fisicamente il percorso di cura, continuerà ogni giorno dentro di me perché ho imparato un modo di vivere, di crescere per stare sempre meglio.
Vi porto sempre nel cuore tutti, Chiara, Matteo, Fiorella, Even, Beatrice e tutte le ragazze, Splendide Donne, come dice sempre Chiara.
Alice