“Penso dunque sono” è l’espressione con cui Cartesio esprime la certezza indubitabile che l’uomo ha di se stesso in quanto soggetto pensante.
Ebbene quando si è affetti da dipendenza patologica sembra quasi che la capacità di pensare venga meno.
L’unica assoluta certezza di vita è quella di DIPENDERE.
“DIPENDO, DUNQUE SONO”.
Non ci si sente sufficienti a se stessi da talmente tanto tempo da non ricordarselo neanche e, nel momento in cui si avverte il godimento ripetuto che porta alla dipendenza, si ha la certezza di esistere. “Se non dipendo da qualcosa o qualcuno chi o cosa sono?”.
Un’esistenza “piacevole” e dolorosa allo stesso tempo, ma comunque un’esistenza che però NON SAZIA MAI e non uso questo termine a caso. No, non sazia e infatti si sente il godimento e dura il tempo che dura e poi cosa sucede??? Dopo un po’ si corre per volerne ancora e ancora e ancora, perchè non basta, NON RIEMPIE, NON RISOLVE, ANZI COMPLICA!
Chi conosce la potenza della dipendenza sa bene che senza di essa sembra preclusa la vita stessa e nel pieno del sintomo appare impossibile poter vivere senza la sostanza/persona di turno.
La dipendenza conferisce anche una sorta di identità che ci accompagna costantemente. Una compagnia continua. Abita le nostre giornate, la nostra quotidianità, riempie il nostro tempo e il pensiero fisso di poterci appropriare dell’oggetto del desiderio tanto amato/odiato diventa un compagno necessario. Non solo, il “volerlo” diviene qualcosa di assoluto, quando il craving diventa piu’ potente non esiste piu’ nessuno: ne familiari, parenti, amici solo ed esclusivamente l’oggetto sintomatico.
E questo non certo perchè si è cattivi o perchè non si ha forza di volontà: è la potenza della dipendenza patologica!
L’unico obiettivo è possedere la cosa o la persona da cui si dipende, ma chiediamoci come mai, anche quando lo si possiede, o si pensa di possederlo, non si avverte un reale senso di benessere.
Benchè spesso si pensa di averlo, in realtà non esiste nessun controllo, così come non esiste la libertà di scegliere al di fuori delle leggi dittatoriali della dipendenza che è la padrona della nostra vita; tutto è portato su un’altra dimensione estremizzata e anestetizzata. A queste condizioni non ci può essere nessun punto di benessere.
Dipendere da qualcosa o qualcuno significa averne un bisogno viscerale: non riuscire a vivere senza e cioè basare la propria esistenza non su se stessi ma su qualcos’altro. E se quel qualcos’altro non c’è o si sposta TU SPROFONDI O CADI = UNA SOFFERENZA INDESCRIVIBILE!
Tutto questo comporta una crescita relativa, dato che ogni cosa che si vive e si fa è in funzioni di altri o di altro.
Una crescita relativa anche perchè la vita procede e, sotto l’effetto della dipendenza, essendo quindi sedati, non è possibile crescere in modo naturale: c’è una vera e propria cristallizzazione della crescita.
Nei disturbi alimentari credo che ognuno di noi, in certi periodi, abbiamo pensato con terrore all’eventualità di non avere più i tanto (amati)/odiati sintomi: è un grande paradosso, sintomi incredibilmente dolorosi che portano con loro anche una buona dose di godimento.
Ricordo chiaramente il dramma che vivevo anche solo nel pensare di non poter avere il mio rifugio, perché la mia dipendenza alimentare per quanto dolorosa, la conoscevo, un mondo e una vita senza, mi terrorizzava, dato che non riuscivo neanche ad immaginarla e non avevo gli strumenti per accoglierla.
Non potevo concepire qualcosa che non conoscevo e non potevo neanche immaginare che tutta quella novità, quella crescita interiore e personale, sarebbe arrivata nel tempo un passo alla volta attraverso un lavoro interiore che mi avrebbe fatto comprendere profondamente perché avevo così tanto bisogno di dipendere da tutto e da tutti.
Uno dei motivi per cui dicevo sempre che era impossibile guarire era proprio questo: il fatto che non potevo minimamente neanche pensarla la guarigione e così, data la disperazione, chiudevo tutto con un “TANTO NON SI GUARISCE! AL LIMITE QUALCUNO TROVA UN COMPROMESSO, IO DI SICURO NO!”
Ho compreso che, per svariate dinamiche e motivi, tra cui il mio bisogno di conferme familiari dati i messaggi contraddittori ricevuti, tutto si era totalmente riversato su quanto era al di fuori di me e quindi ogni approccio che avevo verso la vita era di totale dipendenza per non guardarmi dentro, andavo cercando fuori! (sto ovviamente semplificando molto, anche perchè c’è voluto tanto lavoro introspettivo).
Non appena trovavo un qualcosa che ritenevo essere un porto sicuro (era sempre malato), non in grado cioè di farmi del male secondo me, diventava la mia aria, il mio ossigeno e l’unica cosa per cui vivere! NON ESISTEVA ALTRO! Non esistevo io!
L’altro mi dava la conferma della mia esistenza, perchè io stessa non mi bastavo: io dovevo incorporarlo, io dovevo essere un UNO con l’oggetto sintomatico di turno, con l’oggetto che bramavo in quel momento e dovevo possederlo subito, ORA, TUTTO!
Poteva trattarsi di cibo oppure di una persona, solo in quel modo mi sentivo per un attimo “completa”, perchè come detto tante volte, in me era totalizzante il fatto di non sentirmi mai abbastanza e il divorare l’altro mi assicurava un completamento momentaneo che in realtà non sarebbe mai avvenuto, perchè quella completezza l’avrei potuta trovare solamente facendo pace con tutti quei traumi che mi avevano portato fino a quel punto!
Inoltre non interiorizzavo che il completamento emotivo era momentaneo. A causa della “memoria impermeabile” (come la chiamo io) continuavo a ripetere, ripetere e ripetere ancora le medesime dinamiche malate: un po’ come riguardare un film e aspettarsi un finale differente. E questo accadeva SEMPRE: una coazione a ripetere infinita!
C’è un’espressione che usiamo spesso a MondoSole ed è che è importante imparare a fare baricentro su se stessi.
Questa è la prima cosa: capire, rielaborare e digerire il proprio passato per vivere il presente e concedersi di costruire il proprio futuro.
Quel baricentro è possibile trovarlo e le dipendenze sono falsi appoggi destinati a svanire.