Un album di foto, foto-grafiemotive, che sto sfogliando ogni giorno.
Una lettura che porta consapevolezza, chiarezza, sofferenza.
La prima foto:
a colori, di una bambina “normale”, vivace, con l’intelligenza tra le mani, che sentiva, anche, il disagio della sua “ingombranza”.
Una ricerca della comprensione di qualcosa che non sentiva giusta, ma legittimamente imposta allo stesso tempo.
Sentiva qualcosa di diverso (il suo bisogno) che non voleva per niente omologarsi al dover sentire diversamente (il dover essere inconsapevolmente imposto).
Clic, la seconda:
istantanee, quasi, infinite che coprono l’arco temporale di anni, mesi, settimane, interminabili giorni, colori sbiaditi, anzi mischiati all’ocra, terra bruciata; una bambina più ragazzina e dopo ragazza che ogni giorno viveva con l’idea di dimagrire, continui tentativi fallimentari senza soluzione di continuità, agiti con il costante dis-agio nel vivere.
Clic, ancora:
Isabella sdraiata su un “letto inesistente” (che all’occasione spariva sotto quello della sorella), sta cercando qualcuno, in uno dei tanti giorni di sofferenza, e nel mentre avverte il bisogno di aiuto unito alla raggelante sensazione che non ci sia mai nessuno per lei.
Ho cercato per anni nell’altro l’amore, un solo amore, quello che sentivo mancare, l’amore materno, l’ho cercato così tanto da non vedere dove andavo. Un amore/bisogno, l’unico che ho sempre conosciuto e che ho spesso confuso.
E ancora sfogliando:
magra, molto magra, dominante finalmente sulla vita che (non) controllava, si sentiva così, finalmente dopo anni, tanti.
I colori di questa foto: nessun colore, è una foto nera.
Un’ altra sequela di istantanee infinite: colori ma senza messa a fuoco, poca esposizione, istantanee colte in momenti mai statici sempre in movimento dove una giovane donna faceva di tutto per sopravvivere al dolore con gli strumenti che aveva: abbuffate, vomito, abbuffate vomito, restrizione, tutti i giorni, di settimane mesi e anni, per vivere quel tempo del vivere dove il piacere, le occasioni sono vivamente travolgenti.
Una donna lacerata dalla dis-umana e meschina malattia: avvolte profumata, ben vestita, altre deturpata, sfuggente, rabbiosa, e ancora performante, istrionica, altre, tante e ancora tante, annebbiata nello sguardo, sfinita dai conati, ladra, sporca, trasandata e ancora ladra.
C’è un’altra foto, sparsa, senza pagina:
una bocca con dei denti malati, circondata da una barba, un orco.
Che mai possano essere sfiorati i miei figli dal dolore inconsolabile che ho provato e dalle conseguenza orribili di questa malattia.
È una fatica, grande, cosi grande che una parola non può contenerla, ma provarla significa scegliere ogni giorno per tutti i giorni che rimarranno, la vita.
La vita che scorre nella libertà di sceglier-si e ascoltar-si ogni giorno, e finalmente avere il PROPRIO posto nella vita che si vive.
Si può guarire, diversamente da quanto mi è stato fatto credere, questa è una malattia e la guarigione passa attraverso un lavoro quotidiano di comprensione, di ascolto, di elaborazione e di tutto quanto imparerò a conoscere di me.
Oggi ho provato un’altra volta l’emozione della libertà di sentire, che ha abbracciato il mio corpo, anche lui finalmente libero di essere solo un corpo.
C’è un’altra foto, pensavo di trovarla nell’ultima pagina, e invece è la prima.
Un primo piano a colori di una donna, lo sfondo rimane sfuocato anche se chiaramente è un posto all’aperto, ha un’espressione consapevole, occhi presenti che “guardano”, un poco lucidi, i capelli in posizione di movimento, è in viaggio, il viaggio più stra-ordinario che abbia mai fatto, viaggia con sé stessa, per la prima volta.
Isabella